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Alzheimer: cosa dicono le ricerche scientifiche?

29 Gennaio 2023

Con il termine Alzheimer si vuole oggi intendere, a livello mediatico, tutto l’insieme delle Demenze anche se questa forma incide per circa la metà del totale. Ad esempio in Italia a fronte di circa 1.200.000 Pazienti affetti da demenza, circa la metà soffre di una demenza di Alzheimer. I meccanismi alla base delle varie forme di demenza sono probabilmente diversi, pur se con alcuni aspetti generali comuni (inclusa una certa predisposizione di rischio genetico, ma non solo) ma per tutte valgono alcune regole generali quali l’importanza di una diagnosi precoce e la mancanza di una cura in grado di modificare in modo sostanziale il decorso naturale della malattia.Per quanto per valutare appieno l’importanza di una diagnosi precoce occorre tenere presente che esiste una forma prodromica di demenza che viene definita Mild Cognitive Impairment (Disturbo Cognitivo Lieve o MCI degli anglosassoni). Nel nostro Paese ci sono circa 750.000 persone con declino cognitivo lieve, ovvero soggetti con un elevatissimo rischio di ammalarsi di demenza: metà di queste è di fatto già ammalata di una forma molto iniziale (prodromica) di demenza che si svilupperà in modo evidente nei successivi 3-5 anni mentre la rimanente metà rimarrà autonoma e procederà secondo le normali curve di invecchiamento fisiologico. 

L’identificazione all’interno della popolazione di età superiore ai 60 anni di soggetti con “disturbo cognitivo lieve in fase prodromica di demenza” ovvero di quelle persone che – pur essendo ancora sostanzialmente sane –  hanno un elevatissimo rischio di sviluppare demenza, rappresenta una delle urgenze maggiori in tema di politiche sanitarie per la corretta allocazione delle risorse economiche per questa patologia   partendo dalla constatazione che in Italia ci sono OGGI quasi 400 mila individui che nel giro di 3-5 anni andranno certamente ad ingrossare le fila dei pazienti già affetti da demenza. Si tratta di soggetti di fatto già ammalati di una forma molto iniziale (prodromica) di malattia, ma che ignorano di esserlo e che sono ancora perfettamente performanti nelle attività del vivere quotidiano/professionale/sociale/affettivo: con l’aiuto di biomarcatori di vario tipo (PET, EEG, Liquor, Genetica, tests neuropsicologici etc.) e dell’intelligenza artificiale i medici potranno scovare per tempo questi individui, prima cioè che manifestino i sintomi irreversibili e progressivi della patologia. Questo potrebbe cambiare il corso delle cure, una volta che si rendessero disponibili dei nuovi farmaci contro l’Alzheimer, la forma più diffusa di demenza ed anche permettere un intervento mirato e precocissimo con i farmaci attualmente disponibili e sui fattori di rischio/protezione che sono già noti.Arrivare prima significa intervenire su uno scenario in cui molta parte della ‘riserva neurale’ (cioè quella dota di neuroni e di sinapsi che ognuno di noi possiede ed a cui si può attingere per vicariare –almeno in parte- la funzione svolta da neuroni e sinapsi distrutti dalla malattia) è ancora disponibile e quindi ottenere risultati decisamente superiori nella cura non solo dei sintomi, ma della evoluzione della malattia. Negli ultimi 30 anni centinaia di studi clinici hanno fallito, ma da tali dolorosi fallimenti la ricerca ha comunque imparato qualcosa e prosegue in modo sempre più mirato. Al momento vi sono più di  100 diverse sostanze attive che sono oggetto di studi clinici. In questi studi, si misurano la sicurezza, il dosaggio, la tollerabilità e l’efficacia dei principi attivi in persone sane e in persone affette dal morbo di Alzheimer. Così facendo si perseguono diversi approcci al trattamento della malattia, puntando a numerosi meccanismi d’azione nel cervello. I principi attivi studiati negli studi clinici sull’uomo possono essere divisi in tre gruppi. Il primo gruppo è composto da sostanze attive che trattano e alleviano i sintomi dell’Alzheimer (farmaci sintomatici) senza però modificare il decorso della malattia in termini di progressione, gravità e rapidità. Di questo tipo sono già disponibili farmaci quali gli inibitori dell’acetilcolinesterasi e la mementina unici farmaci sinora approvati negli ultimi 20 anni per questa patologia. Hanno lo scopo di stabilizzare le prestazioni del cervello o di ridurre i disturbi comportamentali e dell’umore nei malati. Queste sostanze possono migliorare la qualità di vita delle persone affette da demenza e dei loro familiari, ma non mirano principalmente a trattare le cause biologiche dell’Alzheimer e quindi a fermare o curare la malattia.

Gli altri due gruppi perseguono invece l’obiettivo primario di modificare la biologia sottostante la malattia, rallentandola o, nel migliore dei casi, curandola.

Al giorno d’oggi, la maggior parte degli studi clinici sui principi attivi mira a influenzare i meccanismi alla base della malattia di Alzheimer. Così facendo si seguono diversi approcci nell’ambito della presunta patogenesi della malattia. Questi mirano, per esempio, a ridurre il deposito di proteina tau o beta-amiloide, al fine di prevenire i processi infiammatori che portano al malfunzionamento delle sinapsi, alla perdita di connessione edalla morte delle cellule nervose.

Vari composti per il trattamento del morbo di Alzheimer sono in una fase avanzata di sviluppo in tutto il mondo. Nei cosiddetti studi clinici di fase 3, la tollerabilità e l’efficacia delle sostanze attive vengono esaminate su diverse migliaia di partecipanti allo studio. Se un produttore può dimostrare con sicurezza il successo terapeutico di un principio attivo, l’autorizzazione all’immissione in commercio viene solitamente concessa.

In questa fase avanzata di sviluppo, la maggior parte dei principi attivi attualmente studiati sono anticorpi diretti contro i depositi di proteine nel cervello. In base alle conoscenze attuali, la malattia di Alzheimer è dovuta, tra l’altro, a questi depositi proteici nel cervello, i cosiddetti depositi di beta-amiloide (Aβ). Essi sono causati dall’accumulo e dal misfolding delle proteine, che successivamente vanno a formare molecole che si aggregano in strutture tossiche ed ad azione proinfiammatoria. La somministrazione di anticorpi che attaccano i depositi di Aβ caratteristici della malattia ha lo scopo di ridurne o impedirne la formazione.  I principi attivi che seguono questo approccio sono il principio attivo Donanemab della casa farmaceutica americana Eli Lilly e il principio attivo conosciuto con i nomi di Lecanemab e BAN2401 della casa farmaceutica giapponese Eisai. Entrambi i principi attivi sono già stati testati su diverse centinaia di soggetti in studi clinici. Anche se essi hanno dimostrato di ridurre i depositi di Aβ nei pazienti allo stadio iniziale della malattia, la loro efficacia e i benefici clinici devono ancora essere completamente studiati e dimostrati. I ricercatori si aspettano che ulteriori studi siano completati rispettivamente nel 2024 e 2025. Si stima che i primi dati saranno disponibili già prima della fine dello studio. Nel frattempo nel 2021 l’anticorpo monoclonale Aducanumab della società biotecnologica americana Biogen ha ricevuto l’approvazione negli USA.  Nell’UE non è invece  stato approvato.Il principio attivo chiamato Gantenerumab della Roche è in una fase di sviluppo avanzato e la sua efficacia viene analizzata nell’ambito dei cosiddetti studi clinici di fase 3. Anche questo agente è un anticorpo che distrugge i depositi di Aβ nel cervello ed è già stato sottoposto a test clinici approfonditi sui pazienti. I ricercatori si aspettano ulteriori studi a partire dal 2023. Al momento, tuttavia, molte questioni sull’efficacia di questo farmaco sono ancora aperte.

In tutti i trials clinici un requisito fondamentale è quello di avere strumenti disponibili ed affidabili che portino sempre di più ad una diagnosi precoce.

È proprio a tale scopo che è sono in corso due studi di respiro nazionale (Interceptor che mette a confronto le capacità di diagnosi precoce, ed il rapporto costi/benefici di diversi biomarcatori in una popolazione di oltre 300 soggetti con MCI che terminerà sul finire del 2023) ed uno studio europeo su intelligenza artificiale e demenze (AI-MIND) finanziato dalla Commissione Europea con circa 14 milioni di Euro ed in cui l’Italia vanta ben 4 unità operative.

 

Paolo M. Rossini

Direttore Dip. Neuroscienze e Neuroriabilitazione

IRCCS San Raffaele-Roma

Professore Ordinario di Neurologia, già Direttore Clinica neurologica Università Campus Bio-Medico ed Università Cattolica/Fondazione Policlinico A. Gemelli