• Notizie

La Neuroprotesi ed il progetto SUAW: le ricerche della prof.ssa Vannini

5 Gennaio 2005
Scienziata di fama internazionale, bolognese, la professoressa Antonietta Maria Vannini, neurologa e fisiatra, libero docente di Discipline Riabilitative all’Università di Bologna, ha un tono di voce pacato ma deciso. Non era ancora il momento di andare in pensione, dichiara candidamente, e così ho deciso di trasferire l’esperienza del mio centro di ricerca di Montecatone, Bologna, qui alla Fondazione San Raffaele di Ceglie Messapica. Un’esperienza che fa dell’Italia il Paese all’avanguardia internazionale per la ricerca nel campo della deambulazione dei paraplegici. Un progetto che brilla come una stella nella notte dell’immobilità, un’idea geniale, un obiettivo che rappresenta il futuro concreto per ridare la speranza a chi ha perso la possibilità di alzarsi e muoversi con le proprie gambe. Un sogno che si chiama neuroprotesi e che sta diventando realtà. Anzi, lo è già per due persone, due giovani Marc, un francese di 38 anni e Lodovico, un italiano di 30. « L’unica possibilità reale che vedo per i paraplegici è questa per il futuro prossimo, non credo, per ora, ai trapianti e alle cellule staminali» – afferma la Vannini – «Da anni ho sperimentato gli stabilizzatori a stivale, delle particolari calzature che consentono al paziente di tenersi in posizione eretta, avere le mani libere e camminare». «Si tratta di cammino indotto dal punto di vista biomeccanico – continua la neurologa – non sfrutta l’elettrostimolazione ma la forza di gravità, è un ausilio piccolo ma efficace, che si basa sul principio dei piani inclinati con dei particolari plantari che il paziente deve imparare a usare. Un principio molto semplice, dopo tutto il nostro corpo è una macchina che funziona sfruttando leve e piani inclinati». Grazie alle sue profonde conoscenze di fisica e anatomia, la professoressa Vannini ha inventato e brevettato questi stivaletti stabilizzatori in carbonio, ormai in uso già da tremila persone in Europa. Ma il fulcro dei suoi studi, ora, è la neuroprotesi nell’ambito della seconda edizione del progetto internazionale Stand-up and walk (SUAW), alzati e cammina, le parole di Gesù Cristo. Antonietta Maria Vannini è la referente in Italia delle ricerche di un gruppo europeo sul cammino artificiale con elettrostimolatori coordinato dal professor Pierre Rabischong dell’Ospedale Propara di Montpelier. Nel 1999 è stato proprio Rabischong a eseguire l’intervento, il primo al mondo, che ha permesso a un paraplegico di camminare dopo 10 anni d’immobilità provocata da un incidente stradale, grazie all’inserimento nei muscoli dell’addome di un microchip. « I medici erano già sbalorditi quando mi hanno visto in piedi. A vedere i miei primi passi non avevano più parole!», racconta Marc Merger, il paraplegico che aveva perso completamente l’uso delle gambe in seguito a un incidente stradale. «Camminare con questo apparecchio è qualcosa di straordinario, che non potete capire. Ora voglio girare dentro casa, lasciare la sedia a rotelle fuori dalla porta», dice ancora Marc nella sua casa di Strasburgo. In Europa sono circa 300 mila i paraplegici, l’età media è 31 anni, nel 65% dei casi, come per Marc e Lodovico, si tratta di vittime di incidenti stradali, nel 10% la causa sono traumi dello sport. «Ma l’operazione – precisano Vannini e Rabischong – può essere compiuta soltanto su persone che hanno conservato muscoli vivi e non hanno deformità nonostante la lesione che ha provocato la paralisi». Lodovico Corrao, invece, è il fortunato di Maranello, cui un computer aiuta a dimenticare di essere paralizzato. L’ordine arriva a una piccola antenna e a una centralina di 12 centimetri, nascosta nell’addome. Fili sottilissimi lo trasmettono a sedici elettrodi innestati tra i nervi e i muscoli delle gambe, otto per parte. Sedici muscoli soltanto dei 100 che fanno muovere gli arti inferiori, ma bastano per camminare. Il microchip trasmette impulsi elettrici agli elettrodi, permettendo così di attivare il funzionamento delle gambe. Non però quello delle vie urinarie e sensitive. «Non si èuò in nessun caso parlare di ritorno allo stato anteriore all’incidente», spiega il Prof. Rabischong, in trasferta a Ceglie Messapica nei mesi scorsi. « Qual è il suo obiettivo?», chiediamo alla professoressa Vannini alla fine del nostro lungo colloquio. «Arrivare alla soluzione della paraplegia», sorride il medico, «e per far questo c’è bisogno di sovvenzioni per acquistare le apparecchiature e mandare avanti il progetto, ma anche della collaborazione del paziente. Che deve diventare un ricercatore insieme a noi, non vivere questa esperienza solo come un fatto personale ma una prova per il bene di tutti gli altri invalidi. Deve avere una personalità sicura, matura, collaborativa, per affrontare un training durissimo». Per ora la neuroprotesi è stata sperimentata per funzionare mezz’ora al giorno. Mezz’ora di libertà quotidiana.