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Paura, panico, ansia: che differenza?

30 Gennaio 2017

Intervista al Prof. Piero Barbanti, che ci spiega anche cosa succede nel soggetto reduce da un grave shock come sopravvivere a una catastrofe

Molto spesso sentiamo dire: “Ho avuto un attacco di panico”, ma l’attacco di panico è una cosa molto precisa, fisica, non è semplicemente un momento di smarrimento o un momento in cui ci si sente mancare per l’ansia.

– Prof. Barbanti: E non è nemmeno un momento di paura. La paura è una reazione normale. Devo fare un esame domani a scuola e sono impaurito: una reazione normale che finisce dopo un po’, quando scompare l’elemento importante. L’ansia invece è quando, rispetto a ciò che devo superare, la paura è eccessiva e mi trovo in una condizione di attesa o addirittura quando non devo aspettare nulla e sono comunque preoccupato. Il panico è un’altra cosa: è una sensazione fisica, drammatica. Il paziente non la sa esprimere bene, usa espressioni come “mi sentivo come morire, il cuore usciva dal petto, mi mancava il respiro”. Il panico giunge a ciel sereno, apparentemente, mentre magari sta al supermercato o a passeggio con una persona amica. Quello che esce fuori è che nel soggetto che soffre di panico e ansia cambia il rapporto con la vita. Noi dovremmo guardare la vita con la stessa rilassatezza con cui quando siamo in autostrada guardiamo la strada: ogni tanto sgrani gli occhi se c’è un sorpasso difficile, ma non presti un’attenzione morbosa. Nel soggetto con ansia e poi con panico succede il contrario: viene iperosservata la realtà, come se ogni sorpasso fosse un sorpasso azzardato. Pensate così con che fatica si vive.

 

Ma quante persone soffrono di attacchi di panico?

– Prof. Barbanti: Tante perché la prevalenza è considerata nella vita intorno al 5%, però bisogna considerare che gli anziani non ce l’hanno, e prende prevalentemente le donne, potremmo dire le ragazze, perché comincia in genere nella tarda adolescenza, intorno ai 17-18 anni, nella prima età adulta, cioè il periodo di massima auge di questo disturbo. Poi nel corso del tempo, dopo i 50 anni, tende ad abbassarsi. Però alcuni soffrono solo di attacchi di panico e si chiama proprio “disturbo da attacchi di panico”. Altri ce l’hanno come condimento nefasto della depressione, come sintomo scuotente che ti fa perdere la voglia di vivere.

 

Per quelli che soffrono solo di attacchi di panico, a cosa può essere dovuto, come si cura?

– Prof. Barbanti: Intanto gli attacchi di panico hanno una buona base psicologica e una buona base organica, pochi sanno ad esempio che nei soggetti che soffrono di attacchi di panico inalare l’anidride carbonica o certe dosi di caffeina riproduce esattamente un attacco di panico. Il motivo è molto semplice: c’è nel cervello una sorta di “centro del terrore”, che ha una funzione cruciale dentro di noi e si chiama amigdala. Su questo centro convergono tutte le cose della nostra giornata, le informazioni coscienti. Io adesso sono in uno studio televisivo e sono quasi le 6. Ma l’amigdala pesca anche dentro un sacco che è l’ippocampo, che è il sacco dei nostri ricordi e delle nostre emozioni, che a volte non conosciamo a fondo, che a volte rimuoviamo. Ed ecco che un fenomeno esterno apparentemente banale, ad esempio entrare in un cinema un po’ buio, o in un grande magazzino affollato, sveglia una situazione latente ed esplode l’attacco di panico.

 

Una situazione latente di turbamento, di qualcosa che ci ha fatto male, che ci ha ferito, che ci disturba.

– Prof. Barbanti: Il nostro organismo è fatto per soffrire il meno possibile e sprecare meno energie possibile. Il meccanismo della rimozione, su cui tanto Freud aveva indagato, e anche della attenuazione delle emozioni è un meccanismo salvavita che il cervello attua sempre, ma rimuovere non vuol dire cancellare.

 

Come si curano gli attacchi di panico?

– Prof. Barbanti: Gli attacchi di panico vanno curati innanzi tutto perché cambiano la vita del soggetto. C’è da dire che una percentuale di soggetti ha pochi attacchi che vanno via nella vita. Ma chi soffre di attacchi di panico sappia che deve fare delle cure. E le cure migliori, ormai la letteratura lo dice chiaramente, sono cure farmacologiche e cure psicologiche abbinate. Perché come dicevamo prima c’è una base biologica ma c’è anche una base psicologica. Servono poco i tranquillanti, servono più gli antidepressivi, guidati dal medico, fate le dosi giuste per i periodi giusti: i risultati sono molto lusinghieri.

 

Questi sono giorni difficili in cui abbiamo sentito di tante tragedie, terribili, soprattutto la storia di Rigopiano. Ha colpito molto questo dover attendere i soccorsi, al buio per tanto tempo, questo trauma di riemergere vivo dopo un evento così terribile. Ecco: uno shock del genere, cioè sopravvivere a una catastrofe, che conseguenze porta su un individuo?

– Prof. Barbanti: Dà delle conseguenze importanti, parlo da neurologo, fa avvizzire letteralmente nei sopravvissuti alcune zone del cervello. Si chiama disturbo da stress post-traumatico e riguarda fino all’8% dei sopravvissuti. Succede che questa persona anche a distanza di mesi, fino a sei mesi dall’evento può improvvisamente essere allarmatissimo. Alcune immagini intrusive che entrano nella nostra testa senza bussare e lo lasciano tramortito. Purtroppo l’esperienza de L’Aquila ha dimostrato per esempio che a distanza di due anni circa il 4% degli aquilani aveva il disturbo da stress post-traumatico e il 6% aveva la depressione. Quindi diciamo che una vicenda così drammatica modifica il cervello, anche strutturalmente.

 

E i bambini hanno più risorse per superarlo un evento del genere o no?

– Prof. Barbanti: È un discorso molto delicato e molto difficile: c’è una differenza tra il bambino piccolo (6-7 anni) e l’adolescente. Se il bambino è piccolo è tutto più facilmente schematizzabile. C’è la magia, c’è il supereroe e c’è il mostro. E riesci, con difficoltà ma forse più facilmente, a incasellare una tragedia del genere all’interno di uno dei tre grandi “partiti” della sua testa. Ma un adolescente, che ha una testa da adulto e un’emotività ancora da bambino, può avere grossi problemi a superare il trauma. Una cosa che non ci stancheremo mai di dire: devono essere tutelati come se fossero dei poli-traumatizzati fisici. Nei primi 2-3 e fino a 5 giorni il cervello è in presa diretta, è in ascolto e registra tutto quello che succede. Non intervistiamoli, lasciamoli stare da soli, devono riprendere la loro vita, devono essere protetti e gli psicologi che stanno vicino a loro servono esattamente a questo.