News > Post, tweet, link e like. Iperconnessi. Ipertecnologici. Dunque “Tecnostressati”?
Ne parla il neurologo Piero Barbanti, dall’IRCCS San Raffaele Pisana
Post, tweet, link e like. Sempre più iperconnessi. PC, tablet e smartphone. Sempre più tecnologici. E sempre più “tecnostressati”. L’allarme arriva da un’indagine di Net Dipendenza Onlus, a soffrirne sarebbero circa 2 milioni di italiani. Ansia, insonnia, irritabilità, problemi di relazione e di carattere sessuale. Sono solo alcuni dei sintomi dei “tecnostressati”. Secondo un’indagine di 2013 Mobile Consumer Habits, un americano su 10 non rinuncia a usare lo smartphone nemmeno durante un rapporto sessuale.
«Il termine tecnostress» spiega Piero Barbanti, Resp. del Centro diagnosi e terapia della cefalea e del dolore dell’IRCCS SR Pisana di Roma, «nasce nel 1980. A causarlo era solo una macchina, il computer. Le ansie maggiori erano legate ai problemi nell’usarlo e al terrore di perdere dati. Negli anni 90 le sorgenti diventano 2: non più solo la macchina ma anche l’interlocutore, l’e-mail; nell’era 2.0, con l’avvento ed il sopravvento dei social network, le sorgenti di stress si sono moltiplicate a dismisura. Si è passati così da uno stress dovuto al nostro interrogare la macchina allo stress dovuto all’essere da lei interrogati».
E’ un dato di fatto oramai, siamo connessi sempre e ovunque, non è più prevista una modalità di vero standby del nostro cervello. «Scompare la dimensione dello spazio e del tempo» spiega il neurologo, «che serve a proteggerci dal sovraccarico psichico. La viglianza – led luminoso a minimo consumo della nostra coscienza – diventa attesa, quindi allerta ed allarme. I livelli di cortisolo crescono, quelli di testosterone scendono». Ansia e stanchezza sono i sintomi principali della già battezzata dagli esperti “sindrome da fatica informatica”.
E ancora alterazione del battito cardiaco e del ritmo circadiano, respiro più corto e frequente, contrazione e rigidità muscolare. «Il corpo» sostiene Barbanti, «entra in assetto di guerra, tra il nostro inesorabile fisiologico calo di attenzione ed uno strumento che ci incalza spietato, senza cedimenti». A risponderne però non è solo il corpo ma anche, soprattutto, la nostra psiche. Scompare il senso del tempo, si riduce la nostra volontà (sedotti da banner o suggerimenti/inserti presenti nella rete), e aumenta il sovraccarico mentale rendendoci più difficile filtrare l’informazione.
«Vivere nascosti da PC o tablet» ammonisce il medico, «aumenta il rischio di ansia o fobia sociale in quanto si tende a vivere celando noi e le nostre emozioni agli altri. Gli stessi soggetti con fobia sociale», continua, «eleggono le chat o i social network come metodi di comunicazione più semplici rispetto al confronto visivo o telefonico e tendono a “emotivizzare” la scrittura con le tanto celebrate emoticon. C’è il rischio che si sviluppino “personalità online”, non di rado più seducenti ma a volte particolarmente aggressive. E personalità “multiple” e identità virtuali». Che si tratti poi di realtà deformanti, ingannevoli, a specchio, non è un problema. L’importante è avere un “profilo”. «O un display» interviene Barbanti, «soprattutto i bambini rischiano di confonderlo con la realtà. Quindi con una rinuncia alla esplorazione vera del mondo a favore di una “virtualizzazione” e “banalizzazione” dell’amore, della sessualità e della violenza, a causa di una conoscenza fatta non di esperienze ma di immagini».
Lo dimostra la recente ricerca “I ragazzi e il cyber bullismo” realizzata da Ipsos per Save the Children, secondo la quale i social network sono la modalità d’attacco preferita dal cyber bullo (61%). E allora cosa fare? Vivere o immaginare? Essere o non essere? Parafrasando Machiavelli», risponde il neurologo di via della Pisana «la scienza dimostra che il fine non giustifica i mezzi: il tecnostress ci preclude il raggiungimento degli obiettivi. L’attacco multimediale può logorare la nostra volontà. E’ ovvio dunque che bisogna essere, non immaginarlo».